A cura della Fondazione Milano Policroma
Testo di Riccardo Tammaro
Al principio del secolo, quando Milano era in piena ascesa industriale,
maturo' l'idea di unire Milano al mare, creando un canale fino al Po. L'area
tra le vie Rogoredo e San Dionigi parve la piu' adatta ad ospitare il bacino
per una serie di motivi, tra cui i piu' imortanti furono gli ottimi
collegamenti viari e ferroviari presenti in zona, sia perche' in quell'area
il dislivello tra Milano e il fiume si riduceva al minimo: circa 65 metri.
Intorno all'affascinante proposta si alternarono così vari progetti,
di cui fu pero' approvato solo il terzo, redatto da Felice Poggi nel 1917.
Fu così costituito, con terreni espropriati, l'Ente Autonomo Azienda
Fluviale, che doveva autofinanziarsi, oltre a godere di contributi pubblici
ed esenzioni; siamo nel 1918. Ma gia' nel 1922 l'impegno economico si rivelo'
spropositato e cosi', verso la fine di quello stesso anno 1922, tra immense
polemiche, l'ente fu sciolto.
Restarono così interrotti tronchi di canale per diciassette
chilometri e olte un chilometro di bacino.
L'area, che aveva restituito alla luce cimeli dell'epoca romana, che
andarono subito dispersi, fu pero' ancora utilizzata per cavare ghiaia e sabbia,
anche nell'intento di favorire una ripresa dei lavori. Ma l'affascinante
progetto era ormai destinato a rimanere sulla carta, come conferma la situazione
ai giorni nostri.
Il Porto di Mare, profondo sino a piu' di dieci metri rispetto al livello del suolo, si presentava allora come uno specchio d'acqua pulitissimo, simile nella forma a un rozzo petine, il cui braccio piu' vicino alla citta' (piu' o meno situato dove ora si trova il "Parco delle Rose") costituiva uno stabilimento balneare cintato, con tanto di cabine e bagnino. Dai primi di maggio alla fine di ottobre le rive dello specchio lacustre erano sempre affollate. I bagnanti che si avventuravano nelle acque intiepidite dal sole si trovavano poi improvvisamente nelle gelide risorgive, o in fitte foreste di alghe, dove sis poteva restare intrappolati. La tradizione popolare dell'epoca racconta di provetti nuotatori e marinai che non uscirono vivi dallo specchio lacustre, al punto da coniare il proverbio "Al Porto di Mare un morto al giorno".
Con l'avvento della seconda guerra mondiale la localita' ando' in declino.
Ben presto, infatti, gli autocarri cominciarono a scaricarvi le macerie degli
edifici distrutti dai bombardamenti.
Inoltre, poiche' il suolo era demaniale, e c'era molta acqua, risorsa
preziosa sia per bere che per lavarsi, nonche' per pescare (e quindi sfamarsi),
parecchie famiglie, prima di sinistrati e poi di immigrati, vi costruirono
baracche con mattoni e lamiere.
Poi, a partire dagli anni Cinquanta, al posto delle baracche sorsero via
via officine, depositi di cassette, impianti sportivi (tuttora sussiste quello
della gloriosa societa' sportiva "Milanese"), e tutto il panorama cambio'
aspetto.
Intanto il livello dell'acqua si era abbassato, e il bacino venne
trasformato in discarica dal Comune. Il sogno era stato affossato
definitivamente.
A questo punto si innestano le vicende legate alla costituzione del parco.